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Intervista a Stefano Squarzina PDF Stampa E-mail
Musicateneo - Edizione 2013

di Lia Bruna

 

Fa piuttosto freddino in questo tardo lunedì di maggio, nell’aula absidale del complesso di Santa Lucia, in via de’ Chiari a Bologna. Si è appena conclusa la cerimonia di consegna di una laurea ad honorem e stanno per iniziare le prove di coro e orchestra: toghe e paramenti accademici escono di scena, entrano sedie e leggii. Con Stefano Squarzina – ferrarese, classe 1966 – ci sediamo in un angolino accanto all’ingresso, cercando di non lasciarci distrarre dagli ottoni, che sono già in prova a pochi metri da noi.

Collegium Musicum – Maestro, lei è abituato a confrontarsi con organici estremamente eterogenei: come compositore ha lavorato per diverse formazioni di fiati e di varia strumentazione (tra le tante ricordiamo la Formazione Cameristica Italiana e l’orchestra a plettro Gino Neri), e come direttore non ha problemi a passare dalla musica cameristica alla sinfonica, dal musical al barocco. Anche nella collaborazione con il Collegium Musicum, l’escursione è ampia: dopo aver diretto l’Orchestra da Camera nel concerto per Musicainsieme in Ateneo 2013, il 7 febbraio scorso, oggi si trova a lavorare con il Coro misto e l’Orchestra ad organico pieno, questa sera alle prese con il Te Deum per la vittoria di Dettingen di Händel, in programma il prossimo 5 giugno; e tra poco dovrà preparare con la sola Orchestra il Plöner Musiktag di Hindemith, in vista del concerto del 27 giugno: si va da un minimo di quattro elementi al massimo di quasi centocinquanta. Cambia qualcosa nell’approccio alle diverse formazioni strumentali e vocali? Il tipo di lavoro è diverso, e, se sì, in quali aspetti?

Maestro Squarzina – Beh, si tratta in fondo del mio lavoro, e io vado dove c’è la possibilità di lavorare. Dal punto di vista del metodo, da parte mia non cambia nulla: la differenza di approccio dipende dalla sensibilità di ciascuno, e per me si tratta sempre di fare musica. Che sia un piccolo gruppo di fiati o di archi, che sia il musical oppure l’opera, ho sempre il rispetto per la musica. Per quel che mi riguarda, il mio impegno è lo stesso. Poi, tecnicamente, ogni tipo di strumentazione ha le sue peculiarità e le sue caratteristiche: cambiano i punti su cui lavorare, e le problematiche da affrontare. Anche avere a che fare con un gruppo amatoriale o un gruppo professionale è molto diverso: certe cose che devi dire con un gruppo di dilettanti puoi non dirle con dei professionisti… ma non è sempre vero!

CM – Tocchiamo un argomento cui volevo arrivare. La maggior parte degli iscritti alla nostra associazione non ha mai studiato musica a livello professionistico: è interessante per noi la questione dell’apprendimento, visto che lo studio passa attraverso canali ‘autogestiti’ e informali. Ho letto che lei studia il flauto barocco da autodidatta, e che è anche insegnante. La mia domanda ha a che fare con la possibilità di trasmettere la conoscenza musicale, mi spiego: fino a che punto, sulla base della sua esperienza, la musica può essere insegnata e appresa? La comunicabilità della musica è onniestensiva, oppure ci sono elementi del ‘talento’ o del ‘genio’, per cui neppure il linguaggio della musica alla fine può esser detto universale?

SQ – Come insegnante ho avuto la fortuna di lavorare con tutte le età in formazione: ho fatto un paio di esperienze con le scuole materne, e poi a salire fino ai conservatori, quindi – possiamo dire – dai baby fino ai ventenni, a quella frangia di età in cui si prende un diploma o una laurea. Per la mia esperienza, soprattutto grazie al lavoro con i bambini, posso dire che non esistono persone antimusicali: semplicemente, non esistono. Ovvio, c’è chi è più portato, ma questo come in tutte le cose. È solo una questione di educazione. Perciò è molto difficile insegnare ai più piccoli: non a caso all’estero esistono corsi di pedagogia appositi per l’educazione musicale. E se lì la cosa funziona – come funziona davvero bene – è perché al linguaggio musicale viene abbinato il linguaggio corporeo. È giusto che sia così: quando si cresce e ci si confronta con la tecnica strumentale e vocale a livello sempre più avanzato, la vera sfida è ‘disimparare’ quanto si è imparato, per raggiungere la maggiore spontaneità possibile. È una cosa difficile, una libertà che si acquista lasciando libero il corpo, e si raggiunge soltanto se si è imparato ad affrontare la disciplina, non a scatola chiusa, ma su diversi livelli.

CM – La nostra è un’associazione universitaria, l’intento è di avvicinare i giovani e gli studenti alla musica. Sicuramente la scuola è la via maestra per aumentare la cultura musicale diffusa nel Paese: sulla base della sua esperienza, l’associazionismo può essere un supporto alle istituzioni, un’altra via, una speranza?

SQ – Sempre, sempre. A cominciare dalle bande di paese, che sono mezzi di divulgazione fondamentali. È ovvio che l’associazionismo fa la sua parte. Io credo, ma lo dicono anche persone più titolate di me, ci sia grande bisogno di una ristrutturazione a livello didattico nella scuola. Siamo l’unico Paese al mondo che non ha obbligatoria la musica in modo continuativo, dalle scuole materne fino all’ultimo stadio. Io ho avuto la fortuna di lavorare un anno in Svizzera, a Berna: quando da casa mia uscivo per andare al lavoro, in teatro, passavo davanti a un comprensorio scolastico, che copriva dalle materne al liceo. Camminando in mezzo a quell’area verde, si sentiva di tutto: chi suonava il pianoforte, chi il flauto, il coro che cantava… Questa è la differenza. Non vuol dire essere più intelligenti o più bravi: solamente, offrire un bagaglio culturale, che poi è ciò che ti consente di scegliere quel percorso professionale, o di sviluppare la sensibilità necessaria ad accedere a quella fetta del panorama culturale. Tutto qui.

CM – Torniamo a lei: diploma di oboe al conservatorio Frescobaldi di Ferrara, nel 1987. Come racconta il passaggio alla direzione?

SQ – Questa è una mia prerogativa, la curiosità. Ho suonato per quindici anni in orchestra, e da oboista mi sono sempre chiesto: chissà cosa vede un violinista, da quel punto là, cosa vede un cornista… e poi, alla fine, chissà cosa vede un direttore. Le cose all’inizio capitano un po’ per scherzo; quando poi ci si rende conto di voler fare sul serio, cambia l’atteggiamento: allora mi sono messo a studiare. Non solo la direzione ma anche la composizione, che è un mezzo indispensabile. Purtroppo, devo dire, tanti direttori sembrano dimenticare tutto quel che hanno studiato a composizione. Non tutti, è vero; però tanti. È come per un letterato non sapere il greco e il latino: armonia e contrappunto, per noi, sono greco e latino, perché ti consentono di accedere a tutte le partiture del passato, e anche del presente.

CM – Invece, cosa la influenza come musicista e come direttore? C’è un autore, un periodo? Se dovesse sceglierne uno, chi…?

SQ – Il gioco della torre non mi è mai piaciuto! Io sono un grande amante del barocco, però negli ultimi tre anni ho lavorato al Teatro Comunale qui a Bologna, e con l’orchestra abbiamo avuto a che fare con un repertorio molto diverso, anche molto recente, ad un certo livello. Mi trovo a mio agio a fare il barocco, ma anche il Novecento, tranquillamente… anzi, pure il Duemila ormai! Non c’è un genere: quando la musica è bella è bella. Mi hanno insegnato che la musica è di due generi: bella e brutta. E poi c’è quella eseguita bene e quella eseguita male.

CM – Nulla da replicare, non fa una piega. A questo punto non posso farla scegliere tra Händel e Hindemith, immagino!

SQ – Händel e Hindemith! Tutti e due tedeschi, tutti e due con la H… Ed è vero, Hindemith non si discosta assolutamente dalla grande scuola e lezione tedesca. All’inizio del Novecento, c’è questo grande recupero della musica del passato. Non a caso Stravinskij inaugura il neoclassicismo proprio in quegli anni; allo stesso modo, ovviamente, anche il filone tedesco ha sempre guardato al passato. Ma ci sono grandissimi abbinamenti, basta pensare a Britten...

CM – E Webern, l’altro nome in programma per il concerto del 5 giugno? Vale anche per lui questo discorso?

SQ – La scuola di Vienna di Schönberg non si discosta da quanto andiamo dicendo, è un ulteriore passaggio della storia dell’armonia, uno sviluppo sulle orme del passato. Non esistono confini. Nell’Ottocento, un personaggio come Verdi e uno come Brahms, un italiano e un tedesco, lavoravano su fronti opposti, sia dal punto di vista del genere musicale, sia sotto tutta una serie di altri aspetti: entrambi si alzavano al mattino e studiavano Palestrina. È famosa la battuta di Verdi, che per andare avanti guardiamo al passato. Penso che quasi tutti l’abbiano fatto.

Si è corretto, con la terza plurale: aveva detto «quasi tutti l’abbiamo fatto». Strano a dirsi di un direttore d’orchestra, ma Stefano Squarzina – ferrarese, classe 1966, piercing all’orecchio sinistro – non ama mettersi al centro dell’attenzione. Ora mancano pochi minuti all’arrivo dei coristi e degli orchestrali, lo salutiamo: per citare l’espressione che usa quando chiama la pausa di metà prova, c’è giusto il tempo della «sigaretta sindacale».


Grazie Maestro! L'appuntamento è per mercoledì 5 giugno, alle ore 21, nella Chiesa del SS. Salvatore a Bologna! Siete tutti invitati.

Lia Bruna